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Per chi stai lavorando?

Per chi sto lavorando?

Mi alzo alle 6 del mattino. Sono uno zombie.

Alla sera piazzo 5 sveglie: dalla più vicina, sul comodino, alla più lontana, sul davanzale della finestra perché di alzarmi, il mio metabolismo, non ne vuole proprio sapere.

Vado in bagno, mi lavo con l’acqua fredda (che detesto) per tentare di uscire dal torpore.
Apro le finestre per far cambiare l’aria. D’inverno è un atto di masochismo, per me che odio il freddo. Ma non posso fare altrimenti: rientro alla sera alle 7, se va bene, più spesso alle 8. E a quell’ora l’aria è appestata di smog. Al mattino un po’ meno.

Mi vesto, faccio colazione con due biscotti e un caffè nero che in teoria dovrebbe svegliarmi, in realtà mi fa aumentare la gastrite.

Tiro fuori dal congelatore il mio pranzo e la mia cena. Il sabato e la domenica li passo a cucinare per tutta la settimana. Poi imbusto le porzioni e le congelo.

Chiudo le finestre. Prendo le chiavi della macchina, esco di casa e mi infilo nel traffico per un’ora e mezza. Arrivo e cerco disperatamente un parcheggio. Lo trovo sempre a non meno di mezzo chilometro.

Entro in ufficio. Panico.

Da poco più di un mese la direzione ha stravolto le postazioni: niente più stanze separate, ma un unico openspace perché “favorisce la socializzazione”.

Io che lavoro col telefono tutto il giorno, non sento niente: nello stanzone della socializzazione c’è un vocio continuo, un sottofondo imperante e assordante che mi procura un mal di testa cronico.

Pausa caffè.

Tutti nello stanzino con la macchinetta che eroga una bevanda tra il nero e il melanzana che spudoratamente viene definito caffè.

C’è Giulio, il collega sposato con tre figli e la moglie invalida, che si avvicina e cerca ogni volta una scusa diversa per toccarmi il fondoschiena o le tette o entrambi.

Per mia sfortuna, ho una quarta abbondante. Tutte le mattine, fastidiosi incidenti, cerco di comprimere le mie esuberanze femminee in un reggiseno che dovrebbe appiattirle, ma c’è poco da fare: si oppongono ostinatamente. Indosso abiti larghi, giacche ampie, camicioni oversize, ma niente, sbordano sempre. Alla sera mi tolgo quello strumento di tortura e finalmente respiro.

Poi c’è Roberta, dell’ufficio acquisti. Una lagna. Una brava donna, per carità, ma tutte le mattine si sfoga e mi racconta i salti mortali che deve fare ogni giorno per conciliare la vita privata col lavoro: la casa, i figli, il bucato, il compagno che fa poco e quel poco è un disastro, la cucina, lo stiro, vai a prendere Luca a scuola, porta Mariella in piscina “Non hai asciugato bene i capelli!” suo padre con l’Alzheimer, sua madre depressa. Lava stira, pulisci la casa e il padre, metti in ordine e prepara da mangiare anche per loro… Un calvario. Ha chiesto aiuto, per sostenere almeno il carico del padre, ai servizi sociali, agli ospedali, alle ASL, al suo medico di base, ma niente da fare: non c’è posto, è tutto saturo. “Lo mettiamo in lista d’attesa” oppure “Lo porti in una struttura privata”.

C’è Beatrice, Bea, col bambino di 8 mesi che non sa a chi affidare: il nido costa un botto, i genitori sono indisponibili. “Potevi starci più attenta” oppure “Non siamo al tuo servizio. Alla tua età ne avevamo già tre e ci siamo arrangiati benissimo.” Sbatte la testa contro il muro dei servizi sociali del Comune. Liste d’attesa interminabili anche lì.

Luciano, invece, è il collega carino che ci prova timidamente, senza speranza. Divorziato, con due figli da mantenere assieme alla ex moglie, che lavora come commessa in un negozio del centro. Due case, due affitti, due spese condominiali, due bollette luce, acqua e gas. Tutto raddoppiato. Si avvicina sempre con garbo, mi chiede come sto, come va, già sapendo che gli risponderò “Bene, grazie” anche se non è vero. Parla del clima, del tempo che passa, della stanchezza e soprattutto di essere stufo di stare da solo, di parlare coi muri, di cenare da solo, di lavarsi i calzini e le mutande, di dormire da solo.

Torno a casa alla sera dopo essermi immersa nel traffico per un’altra ora e mezza.

Sono esausta. Prendo la vaschetta con la cena che avevo scongelato la mattina, la metto nel microonde, un bicchiere d’acqua, una letta veloce ai titoli di giornale, che alla mattina mica li leggo: sono uno zombie, non capirei niente.

💡 Ma è qui che un giorno scatta qualcosa, mi accende un faro nel buio e me lo punta negli occhi.

In un articolo di non so chi, leggo una frase che mi fulmina: per chi stai lavorando?

Mi fermo, trattengo il respiro: per chi sto lavorando io? Per me o per l’azienda?

Ci penso su, rifletto con calma, raccolgo le idee.

Sto creando ricchezza per me o per l’azienda? I benefici, il benessere, i vantaggi sono miei o dell’azienda? Sto crescendo io o l’azienda?

Trovo le risposte, cerco la soluzione.

E tu, per chi stai lavorando?